domenica 14 febbraio 2010

I Racconti di Aldo : Il Percorso Alzheimer 1 di 3

Da oggi si aggiunge una nuova, chiamiamola, rubrica al Blog, uno spazio in cui pubblicherò i racconti scritti da mio padre nel corso del tempo..Sono racconti, che descrivono la realtà di oggi e di ieri, attraverso l'utilizzo di ambientazioni più o meno reali, abbinate a ricordi o situazioni più o meno vere... Non sono lunghissimi, ma neanche abbastanza brevi per essere pubblicati in una volta sola, quindi mano a mano che andremo avanti deciderò in quante puntate presentarvi il racconto..
Quuello che vado   a presentare ,verrà diviso in tre puntate, pubblicate in tre giorni.. Buona lettura..





Il percorso alzheimer  1di 3




Breve racconto di fantasia scritto da Aldo Cavalli dopo una visita presso un Istituto di Ricovero per Anziani situato nei pressi di Pisa.
Mi permetto di darlo in lettura a chi ne avrà il desiderio.
Può essere l’occasione per un dibattito su un tema di grande attualità, oggetto del racconto.

Marina di Pisa febbraio 2010
aldocavalli@hotmail.com

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Alzò lentamente lo sguardo dal piatto che aveva davanti. Non vide sua moglie ed i suoi figli seduti intorno alla tavola.
C’erano solo facce di persone sconosciute senza alcuna espressione che portavano meccanicamente il cucchiaio pieno di brodo alla bocca.
Come era possibile! Si era seduto pochi istanti prima a tavola per cenare , come sempre, nella sua casa in riva al mare. No! Era impossibile!
Si alzò di scatto dalla sedia per sfuggire da quella situazione incredibile. Si, ma dove andare? Era per lui un ambiente totalmente nuovo.
Una grande sala con le parete di un colore verde pallido e grandi porte che davano su un giardino illuminato a giorno. Intorno ai tavoli, disposti in file ordinate, stavano seduti uomini e donne, o meglio quelli che erano stati uomini e donne che mangiavano e non parlavano.
Sguardi vuoti persi nel nulla. Facce macilente e corpi sformati che a mala pena riuscivano a stare seduti legati con delle cinghie su sedie a rotelle.
Dove andare? Cosa Fare?
Improvvisamente vide tutta un’altra cosa. Una spiaggia, certo quella davanti a casa sua. Poi una strada percorsa da macchine e motociclette. Poi nuovamente la stanza con tutti quei disgraziati.
Le gambe gli cedettero, cerco con tutte le sue forze di trovare un appoggio per non cadere in terra. Lui così forte e risoluto non poteva cadere per terra li davanti a tutti. In qualche modo riuscì a restare in piedi. Una mano robusta lo prese sotto una ascella e lo fece sedere sulla sedia che gli stava dietro.
“ Professore non si agiti, stia tranquillo” era la voce di una persona vestita di bianco che con delicatezza e determinazione gli stava dando un ordine più che un consiglio.
Ma chi era il professore? Era lui per caso. Perché lo chiamavano professore? Lui chi era? In verità non si poneva le domande. Queste nascevano nella sua mente senza alcuna logica o meglio senza alcuna finalità.
All’improvviso tutto si oscurò e le voci ed i rumori arrivarono sempre più da lontano fino a scomparire.
Iniziò a rigirarsi nel letto in preda ad una agitazione crescente. Sentiva solo una cosa, la necessità di muoversi. Aprì gli occhi e non vide alcuna luce. Solo uno spiraglio che entrava dalla tapparella della finestra che non era del tutto chiusa e che faceva luccicare una serie di paletti di acciaio, collegati con una sbarra orizzontale, che stavano lungo il suo fianco destro. Era sudato dalla testa ai piedi. Respirava a fatica.
Allungò una mano verso i paletti luccicanti per spostarli. Doveva farsi posto per scendere dal letto.
Niente da fare, non si muovevano di un millimetro. Con uno scatto si sedette sul letto ed iniziò a picchiare con i pugni sui paletti di acciaio. Picchiava con forza ma in modo scoordinato. Le mani iniziarono a sanguinare, gli facevano male, ma lui continuava con la forza della disperazione.
Si accese la luce. Dalla porta entrarono un paio di persone vestite di bianco che senza dire una parola lo afferrarono per le spalle e le gambe rimettendolo sdraiato nel letto. In pochi secondi lo legarono con delle robuste cinghie. Non poteva più muoversi. Rimase impietrito, come morto, con gli occhi sbarrati e la bava alla bocca.
“Professore non si agiti, non ci costringa a tenerlo legato” disse uno dei due. “Forse sarà meglio somministrargli un calmante” intervenne l’altra. “Per fare questo dobbiamo interpellare il medico” .
Medico? Cosa significava medico? Quella parola stranamente lo incuriosì e ritrovò un po’ di tranquillità.
Mentre stava rilassando tutti i suoi muscoli e socchiudeva gli occhi per non vedere la luce che illuminava la piccola stanza, entrò una terza persona , il medico chiamato da uno degli infermieri.
Subito si rese conto della situazione ed ordinò una iniezione di calmante.
L’uomo sentiva il liquido entrare nella vena ed una sensazione di caldo gli pervase tutto il corpo.
Si lasciò andare. Non poteva, non voleva o non era in grado di decidere cosa fare.
Non era più niente!
Lo studio del primario: accogliente ed arredato con eleganza. Una grande porta a vetri dava su un ampio terrazzo pieno di piante e fiori. Di fronte c’era una libreria di legno di noce che occupava tutta la parete. Su di un lato una scrivania, e di fianco ad essa un comodo divano con davanti un basso tavolino di cristallo. Alle pareti quadri di autore ed il pavimento era ricoperto da un prezioso tappeto persiano. Tutto era immerso in una luce tenue e rassicurante dovuta alle eleganti tende che, davanti alla vetrata, scendevano dal soffitto fino a terra.
Il primario parlava con una giovane signora in palese stato di apprensione per la situazione che stava vivendo.” Vede, cara signora, suo padre è affetto da una conclamata forma di alzheimer. E’ inutile che stia a minimizzare la situazione che è veramente grave. Purtroppo c’è poco da fare. Lei sa bene che la malattia è irreversibile. Mi dispiace”
La giovane donna, che tratteneva a stento le lacrime, si soffiò il naso, in preda ad un attacco di allergia
“ E’ terribile, fino a qualche giorno fa stava bene. Mio padre è sempre stato bene.” Le ultime parole le pronunciò quasi con rabbia. Ma come era possibile che una persona degradasse in così poco tempo. Non se ne dava pace.
“Cara signora” continuò il primario” è una malattia che non perdona. Un soggetto sta bene, poi improvvisamente qualche cosa si rompe nel cervello, si formano come dei buchi. Si perde la memoria, viene a mancare la capacità di orientarsi nello spazio e nel tempo. Non c’è niente da fare.